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LA GRANDE CONTESA TRA RUSSIA ED EUROPA PER I PAESI DEL PARTENARIATO ORIENTALE

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Il 28 e il 29 novembre, nella capitale lituana Vilnius, si è svolto il terzo vertice del Partenariato Orientale, un programma dell’Unione Europea istituito nel 2009 e finalizzato a rafforzare le relazioni tra l’Europa e alcuni Paesi dell’Europa Orientale (Bielorussia, Ucraina, Moldavia, Georgia, Armenia e Azerbaigian)[1]. Il vertice di Vilnius avrebbe potuto avere un’importanza cruciale nello sviluppo delle relazioni tra l’UE e le Repubbliche ex-sovietiche dell’Europa Orientale e del Caucaso, e la stipula degli Accordi di Associazione[2] con alcune delle stesse poteva essere il primo passo verso una nuova avanzata dell’Unione nello spazio ex-sovietico. L’intento di strappare l’Ucraina alla sfera di influenza russa è però di fatto fallito, e solo la Georgia e la Moldavia hanno registrato dei progressi significativi nei rapporti con l’Unione. Troppo poco, specie se si considera che Mosca si è ripresa (definitivamente?) Kiev e Erevan. Il vertice, comunque, ha avuto e avrà un ruolo tutt’altro che insignificante nell’evoluzione della situazione in Europa Orientale e nel Caucaso.

Nell’occhio del ciclone si trova oggi l’Ucraina, sia perché è qui che si gioca la più importante tra le sfide tra Russia e Unione Europea nello spazio ex-sovietico, sia per le forti proteste che stanno investendo il Paese in queste settimane. Kiev, come ricorderemo, il 21 novembre ha interrotto (ma non definitivamente, almeno stando alle dichiarazioni del governo) il cammino verso l’Europa per rilanciare i legami con la Russia e i Paesi della CSI. La svolta, però, è stata seguita da una scia di polemiche, e Majdan Nezaležnosti, la piazza centrale di Kiev già teatro della Rivoluzione Arancione del 2004, si è trasformata nell’epicentro di una serie di proteste divenute note come EuroMaidan. Inizialmente circoscritte, le proteste si sono progressivamente rafforzate e trasformate in un contenitore di rivendicazioni tra le più disparate, i cui minimi comuni denominatori sono la destituzione del Presidente Janukovič e del Primo Ministro Azarov, la richiesta di nuove elezioni e la ripresa delle trattative con l’Unione Europea. Non meno variegata è la piattaforma dei dimostranti, che va dai militanti del partito UDAR dell’ex pugile Vitalij Kličko, da molti considerato l’astro nascente dell’opposizione, ai fedelissimi della Tymošenko fino agli ultranazionalisti di Svoboda. Le bandiere dell’Unione Europea si mescolano con quelle rosse e nere di quell’Esercito Patriottico Ucraino che durante la Seconda Guerra Mondiale cercò di creare uno Stato nazionale ucraino combattendo contro tutti (URSS, Polonia, Germania nazista) ma che accolse come liberatori i soldati della Wehrmacht e fu responsabile di vari atti di pulizia etnica ai danni degli Ebrei e dei Polacchi, all’epoca numerosi nell’Ucraina occidentale. Le manifestazioni, perlopiù pacifiche, hanno tuttavia vissuto momenti di tensione: nella notte di sabato 30 novembre i Berkut, le forze speciali ucraine, hanno sgomberato con la forza la Majdan dai manifestanti che vi alloggiavano[3], mentre nel pomeriggio della domenica successiva alcuni dimostranti, dopo aver occupato il municipio della città e la sede dei sindacati, hanno attaccato con un bulldozer il palazzo dell’amministrazione presidenziale, venendo però respinti dalla polizia[4].

Le proteste hanno avuto una larga risonanza in Europa e in Occidente, dove l’appoggio nei loro confronti è stato pressoché unanime e molti hanno parlato di una seconda Rivoluzione Arancione. Il paragone è naturale, e le similitudini non mancano. Ma, oggi come allora, si tende troppo spesso a definire come “lotta del popolo ucraino” dei moti di protesta che in realtà riguardano soprattutto le regioni centro-occidentali. Come la Rivoluzione del 2004, infatti, anche l’EuroMaidan è di fatto lo specchio delle profonde divisioni del Paese. A Kiev la domenica sono in centinaia di migliaia a scendere in piazza, sebbene le stime precise siano fortemente discordanti (i partecipanti alla “marcia del milione” dell’8 dicembre, ad esempio, sono stati quasi mezzo milione secondo gli organizzatori, ma solo 100.000 secondo le più attendibili stime della polizia[5]), e nelle regioni occidentali, storicamente e culturalmente più legate all’Europa che non alla Russia e il cui epicentro è l’asburgica Leopoli, per protesta sono state sospese le lezioni in alcune università[6]. Dalla parte opposta del Paese, dove pure non è mancata qualche sparuta protesta, gli eventi dell’EuroMaidan vengono invece guardati con un certo fastidio[7]. Inoltre, a differenza che nel 2004, le proteste non hanno, al momento, ottenuto alcun successo concreto, e la mozione di sfiducia contro il governo Azarov presentata il 3 dicembre dalla Verchovna Rada, il Parlamento ucraino, è stata respinta[8]. Né probabilmente riusciranno a ottenere uno dei loro obiettivi principali, ossia la stipula dell’Accordo di Associazione con l’UE. Malgrado la retorica, infatti, l’Europa non è realmente intenzionata a prendere l’Ucraina sotto l’ala, e mentre i vari Barroso, Westerwelle e Ashton invitano Janukovič ed Azarov ad “ascoltare la voce del popolo” le autorità di Bruxelles si dicono indisponibili alla riapertura delle trattative sui termini dell’Accordo di Associazione[9]. E, come ricordiamo, sono state anche le condizioni alle quali viene offerto l’accordo a spingere il governo ucraino alla sua svolta ormai ben nota.

Mentre a Kiev fervevano le proteste, Janukovič è volato in Cina per firmare una serie di accordi economici e commerciali[10]. Il presidente ucraino, per quanto possa sembrare debole e non in grado di gestire le tensioni in corso, sta comunque dimostrando una certa scaltrezza: recandosi in Cina, infatti, Janukovič può ora alzare la posta sia con l’Europa sia con la Russia, di cui ha bisogno ma le cui condizioni è restio ad accettare. Sulla via del ritorno, comunque, il Capo di Stato ucraino ha trovato il tempo di fare una visita a Putin e di firmare con lui un accordo i cui dettagli non sono stati ancora resi noti ma che, secondo il Ministro degli Esteri ucraino Leonid Kožara, consentirà la riapertura delle trattative sul gas e un pieno ristabilimento degli scambi commerciali tra i due Paesi[11]. Un redattore dell’Economist ha affermato che l’Ucraina avrebbe acconsentito all’ingresso nell’Unione Doganale in cambio di 15 miliardi di dollari di aiuti e della riduzione del prezzo del gas fino a 200 dollari ogni mille metri cubi (attualmente è di 400)[12]; la notizia, tuttavia, è stata successivamente smentita da Dmitrij Peskov, portavoce del Presidente russo[13]. Difficile dire quanto ciò sia vero, ma è probabile che ciò rientra in una strategia a lungo termine: Putin può infatti avere acconsentito ad elargire un modesto aiuto al Paese sufficiente a dare fiato all’economia ucraina e a permettere a Janukovič di vincere le prossime elezioni con una buona maggioranza, rinviando di fatto la tanto attesa domanda di adesione al dopo-elezioni.

Con la Georgia, invece, l’Unione Europea ha redatto la versione definitiva dell’Accordo di Associazione, la cui ratifica, sia per la Georgia sia per l’altro Stato con cui l’UE ha preparato la versione definitiva dell’accordo, ossia la Moldavia, è prevista per il settembre 2014[14]. La Georgia è da sempre il più filoccidentale dei Paesi caucasici, soprattutto per ragioni strategiche, mentre con la Russia, malgrado i forti legami storici e religiosi (tanto la Georgia quanto la Russia sono Paesi ortodossi), i rapporti sono stati spesso difficili. La detronizzazione di Eduard Ševardnadze nel 2003 e la sua sostituzione col filoccidentale Mikheil Saakašvili ha implicato un netto avvicinamento di Tbilisi alla NATO e all’Unione Europea, come dimostrato dall’istituzione di un Ministero per l’Integrazione Euroatlantica nel 2004, ma al prezzo di un deciso peggioramento dei suoi rapporti con Mosca, che durante la guerra del 2008 hanno toccato il loro punto più critico. L’ascesa del miliardario Bidzina Ivanišvili alla Presidenza del Consiglio nel 2012 e quella di Giorgi Margvelašvili alla Presidenza della Repubblica l’anno dopo sono state seguite da forti schiarite nelle relazioni russo-georgiane, ma il vettore più importante della politica estera del Paese resta quello euroatlantico, sebbene Margvelašvili cerchi di addolcire la pillola al Cremlino affermando che “la sottoscrizione dell’Accordo di Associazione con l’Europa da parte della Georgia renderà il Paese più attraente per gli investitori russi”[15]. Resta inoltre la questione di Ossezia del Sud e Abchazia, che Mosca riconosce come Stati indipendenti ma che Tbilisi continua a rivendicare come parti del proprio territorio. Verosimilmente, quindi, la Georgia rimarrà filoccidentale anche nel medio termine.

La formalizzazione dell’Accordo di Associazione con Bruxelles è stata accolta con favore da Washington, il cui rappresentante Victoria Nuland, in visita a Tbilisi il 5 dicembre, ha affermato che gli Stati Uniti faranno il possibile per anticipare la sottoscrizione definitiva dell’accordo con l’UE[16]. Ma non manca un certo scetticismo nei confronti dello stesso. Tra i perplessi spicca il nome del magnate e uomo politico Gogi Topadze, che sottolinea il notevole divario tecnologico tra la Georgia e i Paesi europei, ritenendo invece maggiormente proficuo puntare ai mercati dell’Unione Doganale Eurasiatica. C’è poi chi teme che Tbilisi cederà alle forti pressioni che la Russia presumibilmente eserciterà sul Paese caucasico per convincerlo a non firmare[17]. Il rischio che ciò accada, però, è limitato. La Georgia, infatti, non fa parte di alcuna organizzazione finalizzata alla ricomposizione dello spazio ex-sovietico, ivi compresa la CSI, e la Russia non rientra attualmente nel novero dei maggiori partner commerciali della Georgia, tanto più che molti dei maggiori prodotti di esportazione georgiani, come il vino e la celebre acqua Borjomi, solo di recente hanno fatto ritorno in un mercato russo nel quale sono stati a lungo banditi. Difficilmente, quindi, la Georgia cederà a delle pressioni che, al contrario, potrebbero rivelarsi un boomerang per la stessa Russia.

Ben diverso è invece il discorso per la Moldavia. Così come per la Georgia, anche nei rapporti tra la Moldavia e la Russia non mancano i pomi della discordia, in primis la questione della Transnistria[18], ma in generale i rapporti tra Chişinau e Mosca sono più produttivi e solidi di quelli tra quest’ultima e Tbilisi. Il Paese, infatti, è osservatore nella Comunità Economica Eurasiatica (EurAsEC), uno dei fondamenti dell’integrazione eurasiatica, e fa parte della CISFTA, l’area di libero scambio tra i Paesi della CSI[19]. Ma un’area di libero scambio non implica una piena liberalizzazione dei commerci tra i Paesi membri, bensì soltanto l’abolizione dei dazi sulle merci prodotte all’interno degli stessi, e per evitare il rischio che prodotti realizzati in un Paese terzo circolino nell’area senza pagare dazi sfruttando la politica commerciale più aperta di uno degli Stati membri, gli accordi di libero scambio includono sempre delle regole d’origine, spesso molto complesse, sui prodotti esentati dai dazi[20]. Il rischio che la Russia utilizzi quest’arma per esercitare pressioni in piena regola sulla Moldavia non è assente, così come ha fatto in passato con i regolamenti sanitari (basti pensare al recente blocco delle importazioni di vino moldavo, una dei principali prodotti di esportazione del Paese[21]). Tuttavia, su quest’ultimo fronte, il rischio che il Cremlino ricorra in maniera arbitraria a questo strumento è oggi limitato: la Russia, infatti, è un membro del WTO, e in quanto tale dovrà dimostrare in sede internazionale la reale pericolosità di un prodotto[22].

Per la Moldavia il trattato è anche un mezzo per avvicinarsi a un obiettivo a cui il Paese, o almeno una parte dello stesso, aspira da tempo: il ricongiungimento con la Romania, con la quale condivide la lingua[23] e la cultura e dalla quale è stata separata dopo la Seconda Guerra Mondiale, durante la quale Bucarest era alleata con Hitler. Quello tra Romania e Moldavia è di fatto un confine artificiale, ma il tema della riunificazione e dell’identità nazionale è foriero di forti divisioni. A seguito dell’indipendenza della Moldavia, la prospettiva della nascita di una Grande Romania suscitò forti preoccupazioni tra le minoranze etniche del Paese (Russi, Ucraini e Gagauzi), con le prime due che diedero vita a uno Stato indipendente de facto nella regione della Transnistria, ma le difficoltà economiche in cui allora versavano sia la Moldavia sia la Romania contribuirono a stemperare le tensioni irredentiste e a riavvicinare Chişinau a Mosca[24]. A Bucarest si continua a sperare nella riunificazione, e l’attuale Presidente romeno Traian Băsescu ha recentemente affermato che “l’unificazione con la Moldavia è il terzo grande obiettivo della politica estera romena, dopo l’adesione alla NATO e all’UE”[25], ma a Chişinau la questione resta fortemente divisiva: una parte del Paese, infatti, tende a considerarsi “romeno” e guarda verso Bucarest e Bruxelles, mentre altri propendono per una distinta identità moldava e guardano verso Mosca. Ma anche tra i primi non mancano le riserve: la decisione della Corte Costituzionale moldava di chiamare “romeno” anziché “moldavo” la lingua nazionale del Paese, ratificata il 7 dicembre 2013, ha infatti creato una spaccatura nella coalizione governativa[26].

Anche l’Armenia, al pari dell’Ucraina, ha scelto di voltare le spalle all’Europa per tendere la mano alla Russia e all’Eurasia ma, a differenza dell’Ucraina, l’Armenia ha ufficialmente dichiarato la propria volontà di entrare nell’Unione Doganale. La mossa non ha mancato di suscitare polemiche in patria, ma di fatto è un atto di Realpolitik, considerate sia le difficoltà economiche del Paese sia soprattutto la necessità di un alleato forte nell’annoso conflitto con l’Azerbaigian. La vicinanza della Russia all’Armenia è stata ribadita durante l’ultima visita di Putin agli inizi di dicembre, durante la quale il presidente russo ha discusso con la sua controparte armena di cooperazione militare ed economica, e ad ottobre il colonnello Andrej Ruzinskij, comandante della base russa di Gyumri, ha persino dichiarato che “in caso di un attacco azero finalizzato a ristabilire la propria sovranità nel Nagorno-Karabach[27] è possibile un intervento armato della base russa nel conflitto in virtù degli impegni presi dalla Federazione Russa nell’ambito dell’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva”. Poiché ufficialmente il Nagorno-Karabach non è territorio armeno, tale dichiarazione è decisamente sopra le righe e, chiaramente, non ha mancato di suscitare malumori in Azerbaigian, ma a Mosca non è stata né commentata né smentita[28].

La volontà di Erevan di aggregarsi al trio eurasiatico è stata accolta favorevolmente sia dalla Bielorussia sia dal Kazakistan, ma in quest’ultimo non mancano i timori che ciò possa compromettere le sue buone relazioni con Turchia e Azerbaigian e rafforzare ulteriormente la posizione della Russia nell’Unione Doganale. La proposta di Nursultan Nazarbaev, Presidente kazaco nonché uno dei padri dell’integrazione eurasiatica, di invitare ufficialmente la Turchia nell’Unione (secondo Nazarbaev il Presidente turco Abdullah Gül gli ha espresso un sincero interesse in proposito durante un loro colloquio privato) va almeno in parte interpretata in questo senso[29]. I rapporti tra Turchia ed Armenia sono tuttora molto tesi, malgrado le schiarite degli ultimi anni, e Ankara è di fatto una concorrente di Mosca per il controllo geopolitico di Balcani, Caucaso e Centrasia: l’idea che la Turchia possa entrare in un’Unione Doganale guidata dalla Russia e che annovera l’Armenia tra i suoi membri sembra perlomeno utopistica. In ogni caso, se è vero che sulle rive del Bosforo l’interesse verso l’Unione Eurasiatica non manca, l’ingresso del Paese della Mezzaluna nella stessa non è all’ordine del giorno. Intervistato in proposito durante il suo ultimo incontro con Putin il 22 novembre 2013, infatti, il premier turco Erdoğan ha affermato di essere interessato semplicemente alla creazione di un’area di libero scambio con l’Eurasia[30]. Un accordo di libero scambio è qualcosa di ben diverso da un’unione doganale, in quanto non implica una politica commerciale e doganale comune, ma semplicemente l’abolizione dei dazi sui prodotti nazionali. Ciò consentirebbe alla Turchia di trarre benefici dalla liberalizzazione degli scambi commerciali con l’Eurasia, e magari di aumentare la propria influenza sui popoli turchi di religione musulmana della regione, senza diventare un vassallo del Cremlino con il quale le affinità sono ben poche e che anzi è stato per molti secoli un suo nemico.

Ai margini dell’appuntamento di Vilnius troviamo la Bielorussia, i cui membri di governo sono tuttora vittime di sanzioni da parte dell’Unione Europea per la loro condotta antidemocratica[31], mentre l’Azerbaigian, senza dubbio il meno “europeo” tra i Paesi del Partenariato Orientale, costituisce un caso a sé. L’osservanza non proprio scrupolosa dei principi dei diritti umani e della democrazia da parte delle autorità di Baku non sembra turbare più di tanto le coscienze delle autorità di Bruxelles, che considerano l’Azerbaigian un tassello importante per la riduzione della dipendenza dal gas russo di buona parte degli Stati europei, e nel 2009 le autorità comunitarie hanno iniziato i colloqui con il governo azero per l’Accordo di Associazione. La ritrosia di Baku ad accettare gli standard europei in termini di economia, democrazia e diritti umani è comunque alla base degli scarsi progressi registrati sulle trattative tra i due Paesi[32]. La Terra dei Fuochi, nome che gli antichi affibbiarono all’Azerbaigian, è oltretutto bene attenta a mantenere buone relazioni col Cremlino. I rapporti tra i due Paesi hanno vissuto recentemente un certo rafforzamento, e durante l’ultima visita di Putin in Azerbaigian i capi di Stato dei due Paesi hanno firmato una serie di contratti finalizzati alla creazione di una joint venture tra la compagnia petrolifera di Stato russa Rosneft e la sua controparte azera SOCAR, le cui funzioni non sono tuttavia ben chiare, e alla vendita all’esercito azero, già fortemente dipendente dalla Russia per le forniture, di una partita di armi dal valore di un miliardo di dollari[33]. Suona quasi un paradosso l’idea che la Russia possa vendere armi sia all’Armenia sia all’Azerbaigian, ma ciò rientra nel divide et impera che da sempre caratterizza la politica delle grandi potenze nella regione e, secondo l’analista armeno Vigen Akopyan, il contratto sulla vendita di armi a Baku è stato il reale movente della svolta eurasista di Erevan[34]. Va detto, comunque, che se il Nagorno-Karabach è oggi di fatto territorio armeno, il merito va soprattutto alla Russia, e di questo ne sono consapevoli tanto l’Armenia quanto l’Azerbaigian.

Il Vertice di Vilnius è stato un fallimento per l’Europa? In parte sì: l’Unione Europea si trova di fatto costretta a riconoscere la primazia della Russia nello spazio ex-sovietico, e la “conquista”, peraltro non definitiva, di Moldavia e Georgia è troppo poco per parlare di un successo. La Russia, d’altro canto, si è ormai ripresa l’Armenia e probabilmente ha fatto lo stesso anche con l’Ucraina. La riconquista di Kiev, per Mosca, ha una forte valenza simbolica oltre che materiale: la Rus’di Kiev è di fatto l’antenato della moderna Russia, e a Mosca l’idea secondo cui i Russi, gli Ucraini e i Bielorussi sono un unico popolo è dura a morire[35]. Tuttavia non mancano i risvolti positivi per la stessa Europa, che non deve sobbarcarsi il peso della modernizzazione di un Paese grande come l’Ucraina in un periodo di difficoltà come quello attuale, mentre ben diverso è il discorso per Moldavia e Georgia, che pur essendo Paesi poveri sono comunque di dimensioni ridotte e quindi meno dispendiosi da sostenere. Resta comunque da capire cosa succederà nei prossimi mesi in Moldavia, Georgia e Ucraina, mentre è molto difficile che Bielorussia, Armenia e Azerbaigian abbandonino il corso intrapreso. Nelle condizioni attuali, infatti, è più facile che un Paese sposti lo sguardo dall’Europa alla Russia che non viceversa.

 




[2] L’Accordo di Associazione è un accordo con cui l’Unione Europea e un Paese non membro stabiliscono rapporti di stretta cooperazione in cambio del rispetto di una serie di principi riguardanti la democrazia, le libertà personali e l’economia da parte dello Stato firmatario. In molti casi l’Accordo include anche la liberalizzazione degli scambi commerciali reciproci su vari prodotti, ad eccezione di quelli agricoli. La sottoscrizione dell’Accordo di Associazione è spesso un passo importante verso l’adesione all’Unione Europea.

[18] La Transnistria è una striscia di territorio moldavo compresa tra il fiume Dnestr e il confine con l’Ucraina nel quale, nel 1990, la locale popolazione di etnia russa e ucraina ha instaurato una Repubblica indipendente de facto con l’ausilio della 14°Armata Sovietica e il tacito supporto russo.

[19] In realtà solo nove degli undici Paesi attualmente membri della CSI (ossia tutte le Repubbliche ex-sovietiche meno la Georgia, uscita nel 2008, e le Repubbliche Baltiche) fanno parte della CISFTA, mentre l’Azerbaigian e il Turkmenistan hanno rifiutato di prendervi parte.

[20] R. C. Feenstra e A. M. Taylor, Economia Internazionale: Teoria e Politica degli Scambi Internazionali, Hoepli, Milano 2009, pp. 436-437.

[22] R. C. Feenstra e A. M. Taylor, Op. cit., p. 451.

[23] Il moldavo e il romeno sono praticamente la stessa lingua, con qualche minima differenza lessicale. L’uso del termine “moldavo” o “romeno” per la lingua nazionale moldava rimane però oggetto di controversie.

[24] S.P. Huntington, Lo Scontro delle Civiltà e il Nuovo Ordine Mondiale, Garzanti, Milano 2000, p. 238.

[27] Il Nagorno-Karabach è una regione popolata prevalentemente da Armeni, ma assegnata da Stalin all’Azerbaigian per ragioni di diplomazia internazionale. Teatro di forti tensioni irredentiste nella fase finale dell’Unione Sovietica, che scatenarono forti pogrom antiarmeni a Baku e nelle altre città azere che ospitavano comunità armene, a seguito del crollo della stessa queste tensioni sfociarono in una guerra tra Azerbaigian e Armenia per il controllo della regione. La guerra è terminata nel 1994 con la vittoria di quest’ultima, che ha instaurato nel territorio la Repubblica del Nagorno-Karabach; la sua indipendenza, però, non è riconosciuta a livello internazionale e il territorio del Paese è tuttora rivendicato dall’Azerbaigian.

[35] Fino agli inizi del Novecento i Russi venivano ufficialmente chiamati “Grandi Russi”, gli Ucraini “Piccoli Russi” e i Bielorussi “Russi Bianchi”. Oggi una certa tendenza ad autodefinirsi “Piccoli Russi” permane nell’Ucraina Orientale, mentre il termine “bielorusso” è di fatto un’italianizzazione del russo belorusskij, ma il termine “russi” viene ormai riservato quasi sempre ai Russi propriamente detti, mentre per indicare Russi, Bielorussi, Ucraini e Ruteni (un popolo che vive a cavallo delle odierne Polonia, Slovacchia e Ucraina occidentale) viene usata l’espressione “Slavi Orientali”.

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